Condividiamo con voi l'intervista a Silvia Guidi, giornalista professionista che dal 2008 lavora nel servizio cultura de "L’Osservatore Romano", primo giornalista donna assunto nel giornale del Papa. Dal 2018 docente della Scuola di Lettura e Scrittura "Pierluigi Cappello" promossa dalla nostra associazione.
Silvia, raccontaci un po' di te. Com’è nato il tuo rapporto con la letteratura?
Io, prima di tutto, sono una giornalista per caso. Da giovane la mia vera passione era lo studio del latino medievale, in particolare della letteratura. Grazie all’incontro con un professore universitario eccezionale, Claudio Leonardi, è nata una passione per la ricerca che non mi ha mai abbandonato.
La vita, poi, mi ha portata ad applicarla al mio lavoro attuale, rispetto al quale la sfida è non appiattirmi nel cinismo, negli automatismi che ti abituano a scrivere il pezzo con poca fatica, lasciandoti raggiungere il meno possibile da ciò che vedi. A volte è comodo: ho fatto per tanti anni cronaca nera, e non è facile avere davanti agli occhi il dolore delle persone. Io, però, lotto per essere permeabile al mondo esterno, per non chiudermi in una routine poco dolorosa, ma anche poco viva. In questo la letteratura mi ha sempre aiutata.
Prima ancora di iniziare l’università ho collaborato con una rivista di letteratura comparata, Semicerchio, che aveva lo sguardo aperto sul mondo, per vedere come il cuore dell’uomo si esprime, come chiede, come grida, come lascia traccia della storia di sé. Nel tempo ho capito che questa passione avrebbe potuto salvare anche il mio amore per il giornalismo. La letteratura è un aiuto alla mia vita. Il mio atteggiamento, anche come docente della Scuola di lettura e scrittura creativa Pierluigi Cappello, rimane da allieva. Se devo preparare una lezione, sono io che, per prima, ho l’occasione di imparare, di riscoprire cose che altrimenti nel quotidiano non riuscirei più a vedere. C’è una frase di Romano Guardini che per me è scolpita sulla pietra: “Vorrei aiutare gli altri a vedere cose con occhi nuovi”. È quello che desidero io per la mia vita, che qualcuno mi aiuti a non essere prigioniera della scontatezza.
La volta scorsa abbiamo discusso di come la scrittura serva ad “aprirci gli occhi”, a guardare il dolore, nonostante le parole siano sempre insufficienti ad esprimerlo pienamente. Quale scrittore o libro è riuscito ad aprire i tuoi?
Diario di un dolore di C. S. Lewis. Il titolo in inglese, però, non è questo: Lewis non parla di un diario, ma di un “dolore osservato”. È come se facesse un esperimento su sé stesso: ha appena perso la sua amatissima moglie Joy e guarda scorrere dentro di sé gli effetti del dolore, tra cui la tentazione di aggrapparsi a brandelli di ricordi. Ma ogni ricordo si rivela insufficiente; lui vuole sua moglie, non una foto sbiadita. Questa sincerità, questa lealtà totale nel guardare il proprio dolore, mi ha commosso, ed è stata una delle esperienze di condivisione più profonde che abbia mai vissuto. Quando ho perso delle persone care, ho sentito il bisogno di rileggere questo libro. Pur essendo profondamente cristiano, Lewis non ha paura di guardare lo scandalo che è la sofferenza. Ci esorta a non andare subito all’aspetto consolatorio: prima dobbiamo guardare la realtà, farci un lavoro sopra, e poi potremo dire che la croce ci ha migliorati. Non ci sono scorciatoie.
Essere leali con sé stessi fino a guardare in faccia il dolore fa male. Come ci può aiutare la letteratura in questo?
Immedesimarci con l’esperienza di un personaggio letterario ci aiuta ad essere più sinceri nel guardarci dentro. Per esempio, la maschera di Amleto ci permette di ascoltare questa voce che ha bisogno di gridare, perché il dolore, se inespresso, rompe qualcosa dentro.
In questo il teatro, la letteratura, aiutano ad attraversare un’esperienza traumatica, a farci sentire liberati. Il potere catartico dell’arte cura ferite che non sapevamo neanche d’avere, che scopriamo proprio mentre leggiamo. Prendiamo un autore medievale, Alcuino di York, ministro della cultura di Carlo Magno. Era uno studioso degli specula, ossia testi che servivano alle persone a fare l’esame di coscienza. Lui sosteneva che è difficile guardarsi in azione, e che pertanto al lettore vanno offerte delle storie affinché questo, attraverso i personaggi, possa trovare la cura adeguata alla propria ferita, una storia che gli è gemella, che faccia da specchio. Anche Dante ci regala specchi: per esempio, io posso vedere la mia angoscia dovuta a un rapporto sbagliato in Paolo e Francesca. Sono tutti specchi per guardarci dentro e scoprire aspetti di noi stessi in un percorso che è faticoso, ma liberante.
Parliamo dell’esercizio che tu e Stas’ ci avete proposto sul provare a scrivere un testo “commerciando con i propri brandelli dolenti”.
Tu come lo hai svolto?
Mi sono detta: qual è un ricordo, per me, particolarmente bruciante? Un brandello di realtà che faccio fatica a tenere in mano, perché mi ferisce? E ho realizzato che era il ricordo di mia nonna, morta molti anni fa.
Per prendere questi brandelli arroventati c’è bisogno di pinze, non si possono prendere con le mani, altrimenti ci si brucia. E le pinze sono delle tecniche narrative. In questo caso, ho adottato la voce narrante più impersonale possibile, come se fossi la vicina di casa di mia nonna che la vede, ma non è coinvolta a livello emotivo. Così facendo, sono riuscita a scrivere di lei. Se invece avessi scritto un diario in prima persona non solo sarebbe stato noiosissimo, ma non sarei riuscita, perché il suo ricordo mi avrebbe paralizzato: io desidero rivederla, non scrivere di lei. Per questo è prezioso il metodo suggerito da Stas’; abbiamo bisogno di strumenti narrativi per fare cose che altrimenti, lasciati a noi stessi, non riusciremmo a fare. Così come possiamo scrivere di rapporti che ci hanno segnato e che abbiamo perso di vista. E’un modo di recuperare la loro memoria nella più totale discrezione. Magari non li cercheremo mai più, però vale la pena di conservare quelle scintille di bene che abbiamo condiviso con loro, senza nostalgie inutili, ma con una gratitudine che nasce dal guardarsi indietro e vedere quante cose sono state attraversate, sia belle che faticose. È la nostra storia, e pertanto ha un valore immenso.
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